mercoledì 22 aprile 2015

Recensione sull'ultima opera di Marilyn Manson by Karaokanto Live



Non sono mai stato un grande fan del pallido Marilyn Manson (al secolo Brian Hugh Warner), e devo ammettere che dopo il periodo di ascesa mediatica di metà/fine anni ’90 - in cui sfornava prodotti di un certo interesse - e il successivo calo di seguito e di qualità delle release, ero convinto che il reverendo avesse esaurito le frecce al suo arco.
Beh, mi sbagliavo.
Già dal precedente lavoro Born Villain (2012) si intuiva una certa “ripresa”, ma è con il nono lavoro in studio The Pale Emperor, che Manson dimostra di avere ancora parecchie cose da dire.
Se il singolo Deep Six, pur molto godibile nella sua “cattiveria controllata”, poco o nulla aggiunge al sound della band, è con brani come l’opening track Killing Strangers, lento e morboso bad blues dai suoni sintetici che TPE sfodera tutto il suo potenziale. Reverend Manson racconta storie malate, e lo fa in maniera convincente come – forse – non aveva fatto mai: un po’ eighties e un po’ cantautorale, Third Day Of A Seven Day Binge, l’intensa Mephistopheles Of Los Angeles e la rarefatta e disperata Warship My Wreck, valgono da sole tutto l’album.
Per il resto, ce n’è un po’ per tutti i gusti, come Slave Only Dreams To Be King – che non convince appieno – per gli amanti dell’industrial o la ritmata The Devil Beneath My Feet (con My Sharona dei the Knack che fa capolino), per quelli che sentivano la mancanza di qualcosa più mainstream.
Decimo e ultimo brano, la bella Odds of Even, risulta spiazzante e inquietante quanto basta per essere uno dei migliori episodi dell’album.
Insomma, si tratta davvero di un bel disco in cui mr Warner dimostra che il pensionamento è ancora di là da venire.
E poco importa che si stia lentamente trasformando in Nicholas Cage.  




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